Arts and Politics of Participation @ AHAcktitude 2011

Seminar on the Arts and Politics of Participation, April 2, 15.00h @ AHAcktitude 2011, Italy, Academy of Fine Art of Carrara, organised by Tatiana Bazzichelli, Loretta Borrelli, Simona Lodi & Vera Martini.

ahacktitude_2011The next AHAcktitude 2011, the national meeting of the AHA mailing list, is taking place in the city of Carrara, on April 1-3 hosted by the Fine Art Academy of Carrara.

The program is very rich and participated. Conferences, debates, workshops and performances will involve students, artists, activists and professors.

On Saturday from 15.00-18.00, Loretta Borrelli, Simona Lodi, Vera Martini and I are organizing a collaborative seminar on the topic: Arts and Politics of Participation. All the members of the AHA: Activism-Hacking-Artivism network and new participants are welcome. During this seminar, we are investigation the meaning of participation in the context of capitalistic strategies in the field of networking practices and exchange.

Below is the text of my intervention, a critique of the concept of participation and artivism in the time of social media (language: Italian).

Racconto di un’esperienza: verso una critica dell’artivismo?
di Tatiana Bazzichelli

Il concetto di partecipazione è centrale per sciogliere alcuni nodi che riguardano l’evoluzione e le trasformazioni del concetto di “fare rete” nell’era dei social media. Le mie riflessioni sono la conseguenza di un percorso che sto portando avanti a livello universitario durante la scrittura del mio dottorato in Danimarca e sono anche la conseguenza di un percorso di diretto coinvolgimento nell’ambito della scena attivista (o meglio artivista) in Italia sin dalla metà degli anni 90. Quindi, il mio contributo va pensato come soggettivo, e di base si tratta di un racconto di un’esperienza, che citando Chiara Zamboni, “è allo stesso tempo dono ai presenti e desiderio di essere aiutati nel decifrarla” (Zamboni, 2009: 34).

Soffermandoci quindi sulle dinamiche di rete, e tenendo sempre in mente il tema della partecipazione, siamo di fronte a un duplice processo. Non c´è dubbio che il concetto di networking è diventato mainstream allargandosi a un vasto pubblico che, come nel caso dei più giovani che si stanno alfabetizzando attraverso i social media, lo interpreta in base alla propria presenza su Facebook, YouTube, Flickr, ecc. Da una parte siamo quindi di fronte a un processo di continuità: il networking, che prima era una pratica diffusa soprattutto all’interno dei circoli artistici di avanguardia, oppure nell’ambito della scena tecnologica underground, è diventato una pratica anche per un pubblico allargato di meno “esperti”. C’è chi vede questo processo non necessariamente negativo. Per esempio, Lee Felsenstein durante una mia intervista nel dicembre 2009 a Palo Alto sostiene che in qualche modo i social media di oggi e le forme di partecipazione allargata che implicano, sono una vittoria della cultura hacker e del concetto di access for all, computer power to the people, tematiche su cui Lee si è confrontato nel corso della sia carriera. Analogamente, in un’altra intervista con Vittore Baroni effettuata nel marzo 2009 a Viareggio, Vittore sostiene che bisogna riconoscere l’importanza dei social network come piattaforma di rete, per questo è importante essere presenti all’interno di essi pur mantenendo un approccio critico, perché costituiscono sicuramente un nuovo potenziale a livello di scambio.

Questa linea di congiunzione si biforca però in una linea di rottura, se consideriamo gran parte del vocabolario critico che si è sviluppato nel corso degli ultimi anni rispetto alla tematica del social networking. Questo vocabolario è strettamente correlato ad una critica dell’economia post-fordista, al concetto di biopolitica, all’analisi dello sfruttamento capitalistico (exploitation) e in gran parte si ricollega all’evoluzione del pensiero autonomo marxista (anche se il discorso è molto complesso da fare in questa sede, per le molte posizioni che vivono all’interno di questa “tradizione”). In questa visione, alcuni teorici, come Antonio Negri, Michael Hardt, Paolo Virno, vedono come soggetto emergente la cosiddetta moltitudine, termine prima usato da Machiavelli e poi Spinoza e riadattato da Hardt e Negri nel libro Impero (2000) e poi Moltitudine (2004) e da Paolo Virno in Grammatica della moltitudine (2003).

A mio parere, e qui parlo anche attraverso la mia esperienza artivista, pur se una visione del genere – quella della moltitudine come modello di resistenza contro il sistema capitalistico – può ipoteticamente funzionare a livello teorico perché mette in campo diverse soggettività, è difficilmente applicabile a livello pragmatico senza ricreare dinamiche di conflitto, e quindi paradossalmente, movimenti oppositivi che si basano ancora su una visione dicotomica della partecipazione. Pur se gli stessi teorici sopra menzionati tendono a criticare dinamiche di potere dualistiche (concentrandosi sui temi delle soggettività, del nomadismo e superando un approccio dialettico negativo), tradotte nella pratica le loro idee sono spesso interpretate in forma di “opposizione”, di “conflitto” e di “resistenza”.

Il punto sta nel cercare di capire come immaginare nuove forme di partecipazione che vadano oltre conflitto e resistenza – e che vadano oltre la creazione di un soggetto olistico, pur se presentato come plurale (la moltitudine, appunto). Di conseguenza, è sicuramente necessaria una riformulazione del linguaggio, che entra nella sfera della produzione e del politico, e in questo senso sono d’accordo con Paolo Virno, ma vanno ripensate anche le pratiche attiviste e le strategie critiche.

La tradizione che va dal punk alla cultura hacker, e la stessa idea di disturbo virale, è sicuramente centrale, perché agisce dall’interno dei processi e non dall’esterno (ricordiamoci l’hands on imperative), e propone dinamiche spezzate a livello di soggettività e strategie (si pensi per esempio al Neoimo, a Luther Blissett, ecc). Ma allo stesso tempo, anche questa scena va criticizzata di fronte alla propria sussunzione negli ambiti di mercato (come vediamo, nella retorica propria dei social media, il linguaggio degli hacker è diventato complice delle dinamiche di profitto). Franco Berardi presenta una critica del concetto di attivismo e del ruolo delle avanguardie, sostenendo che le ultime hanno fallito perché sono state totalmente incorporate dal mercato e oggi sono divenute strategie di mercato (2009). Ma allo stesso tempo oggi ci sono artisti e attivisti che si ispirano proprio a una certa tradizione “disruptiva” e “disturbante” creando azioni dall’interno, appropriando criticamente il business, oppure proponendo modelli alternativi ad esso (per esempio gli stessi Les Liens Invisibiles, Paolo Cirio, i Telekommunisten, il collettivo Moddr, l’esperienza di Anna Adamolo, e il movimento degli Anonymous che può essere interpretato come la versione attuale di Luther Blissett e Monty Cantsin).

Concludo con alcune domande. È ancora possibile una forma di partecipazione critica, attraverso la pratica artistica? Se le avanguardie sono morte o hanno fallito, cosa è rimasto dopo di loro? E  parlando della nostra esperienza come AHA, secondo quali strategie è necessario giocare le nostre carte? Se l’artivismo non funziona più come pratica critica di rete, la nostra comunità Activism-Hacking-Artivism che senso assume nel panorama hacker e artistico italiano (e internazionale)?

Tatiana Bazzichelli, per AHAcktitude, aprile 2011

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